Ricette per il disastro: un piatto alla moda

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Ricette per il disastro: un piatto alla moda

fast fashion, ambiente solidale

Bentornati alla nostra rubrica colma di ricette sui processi produttivi insostenibili per il pianeta! Oggi vogliamo presentarvene uno che ci sta particolarmente a cuore: la produzione di capi di abbigliamento. 

Seconda solo all’industria del petrolio guardando i livelli di inquinamento, l’industria della moda negli ultimi 15 anni ha avuto un picco produttivo altissimo, dovuto soprattutto al fenomeno della fast fashion. Questo modello di business permette ad aziende di brand a noi molto familiari di produrre abiti a costi sempre più bassi, a fronte però di scelte poco sostenibili, il cui costo sociale e ambientale è spesso troppo alto.  

Se da un lato le aziende di fast fashion producono annualmente ben 100 miliardi di capi d’abbigliamento nuovi, dall’altro ci siamo noi, consumatori indefessi che, senza pensarci troppo, prendiamo 70 milioni di tonnellate di abiti usati, fuori moda o che non ci piacciono più e li gettiamo via. Immaginate la faccia confusa del nostro Pianeta nel vederci buttare quei vestiti ancora in buone condizioni, dopo averli prodotti, sfruttando le sue risorse e riempiendolo poi di scarti altamente inquinanti. Sarebbe veramente perplessa. 

Ma cosa si nasconde dietro questa produzione massiva? Abbiamo pronta una disastrosa ricetta per svelarvi, passo dopo passo, questi oscuri retroscena.

Fast fashion: la disastrosa ricetta

Se per fare un albero ci vuole un seme, per fare vestiti ci vogliono fibre: il nostro primo ingrediente. Ne abbiamo di diversi tipi, solitamente divise in naturali (la più usata è il cotone) e sintetiche (di natura plastica come il poliestere). Se decidiamo di produrre queste ultime, il procedimento segue i passaggi illustrati nella nostra ultima ricetta, dall’estrazione del petrolio fino all’ottenimento del materiale plastico (fibre in questo caso), condito delle varie emissioni inquinanti. Se vogliamo ambire ad un piatto plastic free dobbiamo invece procurarci le fibre dalle piante, solitamente dal cotone. E allora armiamoci di zappa e olio di gomito e iniziamo a coltivare la soffice pianta, con cui andiamo a ricoprire il 2,5% delle terre arabili di tutto il pianeta. Per facilitare questo passaggio, aggiungiamo un’ingente quantità di acqua, utilizziamo una massiccia dose di pesticidi e fertilizzanti che inquineranno le falde acquifere sottostanti. Condiamo col peso sociale di una raccolta manuale intensiva in cui vengono sfruttate migliaia di persone, la cui più recente espressione si è riscontrata nei “gulag del cotone”

Una volta ottenuta la materia prima, sintetica o naturale che sia, portiamola in fabbrica, aggiungendo quel pizzico di inquinamento atmosferico causato dai mezzi di trasporto, che non manca mai. Qui iniziamo a lavorarle energicamente tramite un procedimento variabile in base al tipo di fibra, ma che in ogni caso consumerà migliaia di litri di acqua e caricherà il nostro piatto di una generosa dose di sostanze chimiche nocive, sversate ancora una volta nelle nostre acque durante le fasi di lavaggio. Pensate che ad oggi per produrre una maglietta usiamo 2700 litri di acqua, per un jeans tra i 3800 e i 10000 litri, mentre per dissetare un essere umano per un anno ci basterebbero circa 1000 litri. 

Ottenuta il capo di abbigliamento bisogna trasportalo ancora, stavolta nei locali adibiti alla distribuzione, facendo aumentare vertiginosamente la porzione di emissioni di gas a effetto serra legate al nostro piatto alla moda, e che ad oggi rappresentano il 10% delle emissioni globali.

Ora, entriamo nel punto vendita del nostro marchio preferito, lasciamoci catturare dal magnetismo della nuova collezione e compriamo dozzine di vestiti a buon mercato per sfamare il mostro del “non ho nulla da mettere”, mentre il nostro caro armadio a casa straripa. Usiamo i nostri nuovi acquisti un paio di volte al massimo e alla prossima, veloce e innovativa collezione buttiamoli, perché sono fuori moda.

Consigli dello chef

Ed è qui che intravediamo la fine della nostra ricetta inquinante, dove le sorti per ciò che abbiamo buttato si riducono a tre principali vie: venire riciclati, inceneriti o portati in discarica. Consideriamo che globalmente solo l’1% vengano riciclati, quindi rifiniamo il tutto con l’ultima dose di emissioni provenienti dall’incenerimento e con 90 milioni di capi di abbigliamento che si accumulano nelle discariche ogni anno. Et voilà, il disastro è servito. 

Non tutto il mondo è paese, e fortunatamente i dati del riciclo in Italia sono più incoraggianti, grazie anche ad attività come quelle di Ambiente Solidale, il cui obiettivo è conferire nuova vita agli abiti usati, indirizzandoli al riciclo o alla vendita se in ottime condizioni, trasformando un potenziale disastro ambientale in una risorsa.  

Ma non vi preoccupate, abbiamo sempre qualche nuova ricetta in serbo per voi.

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